L’amico del cuore

Il bimbo tirò le coperte sulla testolina arruffata e abbracciò  più forte l’orsetto. Piangeva, rannicchiato nel lettino, cercando di non far rumore, cercando di soffocare i singhiozzi che gli toglievano il respiro.
Dalla posta chiusa arrivavano urla spaventose: una voce maschile e una femminile che si sovrapponevano, cercando di sopraffarsi a vicenda, gridando sempre più forte parole che il bimbo non capiva, ma che sapeva essere bruttissime.
“Perché fanno così?” sussurrò disperato all’orsetto “Perché non sono mai contenti? Urlano sempre, sono sempre arrabbiati, non si vogliono bene… Non MI vogliono bene!”
Se mi volessero bene – sussurrava il suo cuoricino infelice – non mi farebbero soffrire così…
“Per fortuna ci sei tu” continuò, singhiozzando contro il musino dolce dell’orsetto “ Tu sei l’unico che mi vuol bene… Il mio unico amico… Caro…”
Dall’altra parte della porta qualcosa cadde e andò in pezzi; le urla aumentarono ancora: adesso il papà aveva iniziato a bestemmiare.
Il bimbo trasalì:  non riuscendo più a trattenersi, scoppiò in singhiozzi convulsi. “Aiutami!” implorò l’orsetto “Per favore, aiutami tu! Falli smettere! Non voglio più sentirli bisticciare, mai più! …Sono cattivi! Cattivi! … Non mi vogliono bene!… Falli smettere! Ti prego! Ti prego!”
Meglio non averli, un papà e una mamma, quando si comportano così – protestava il suo cuoricino ferito – meglio essere soli, senza nessuno che ti fa soffrire…

I poliziotti si aggiravano sgomenti nella stanza devastata. “ Che disastro!” commentò l’ispettore “Chi può aver fatto una cosa simile?”
Mobili rovesciati, spezzati, come calpestati da un essere enorme; le suppellettili a pezzi sul pavimento; schegge di  legno e vetro dovunque; lunghi squarci paralleli nelle imbottiture di poltrone e divani e sulle porte; addirittura i muri erano devastati dagli stessi lunghi, profondi graffi.
Il medico legale gli si avvicinò “ Stanno portando via i corpi…” Aveva un’aria sconvolta “ Mai visto una cosa così! Che razza di ferite… degli squarci! Sembra che siano stati sbranati da qualche belva feroce, addirittura!” Esitò un attimo, rendendosi conto dell’assurdità che stava per dire : “Se fossimo in mezzo ad un bosco, e non in un appartamento in centro città….direi che sono stati attaccati da un grizzly!”
L’ispettore lo guardò allucinato: era la stessa cosa che aveva pensato lui.
“Che dicono i vicini?” chiese ad un poliziotto che si era intanto avvicinato “Li hanno sentiti litigare fino a notte fonda “ rispose questo “ A quanto pare succedeva in continuazione. I litigi erano violenti, e le urla ormai non stupivano più nessuno, e neanche il rumore dei mobili rovesciati o dei piatti rotti… Quindi non sono in grado di dire se e quando sia entrato qualche estraneo. “ abbassò la voce , accennando con la testa alla stanza accanto “.. spesso sentivano piangere anche il bambino… per giorni interi…”
Anche l’ispettore guardò verso la porta chiusa con cura, perché dall’altra stanza non si vedesse la devastazione e le chiazze di sangue. “ Già, il bambino… “ si rivolse alla poliziotta accanto alla porta “Ha detto qualcosa? Come sta? Ha capito che i suoi genitori…”
“ E’ tranquillo… Ha detto solo che i suoi genitori urlavano, litigavano sempre, e che lui era tanto spaventato e triste; ma poi il suo amico orsetto l’ha aiutato: ci ha pensato lui, ha detto… Penso intendesse che si è consolato con l’orsetto… “ spiegò, in risposta allo sguardo interrogativo del commissario “ …e allora si è addormentato. Credo che non abbia sentito niente, per sua fortuna, e chiunque sia entrato in casa, non si è accorto che c’era anche lui. E di sicuro non gli abbiamo lasciato vedere niente di cosa è successo qui”
“Meglio così, povero piccolo. Quanti anni avrà? Quattro, cinque? Avrà immaginato che il suo peluche gli desse i baci che non gli dava sua madre…  Comunque sono stati avvisati gli assistenti sociali, presto verrà qualcuno a prenderlo”
Socchiuse la porta con precauzione: sotto lo sguardo tenero di un’altra poliziotta, il bimbo era seduto su uno sgabellino: parlava sottovoce col suo caro orsetto.

 

Assenza

Le pareti della Biblioteca risplendevano bianche sotto la luce della luna piena. Le tende leggere alle finestre si muovevano appena sotto la brezza profumata. Dagli scaffali ombre indefinite fluttuavano morbide nelle stanze. Vuote.
La Bibliotecaria non c’era.
C’erano invece le Voci, che, senza una risposta ormai da tempo, sussurravano senza tregua, scendendo dal soffitto, penetrando dalle finestre, sgusciando dagli angoli, riempiendo tutto lo spazio di un brusio vibrante, insopportabile.

“Dov’è? “Chiese il Corvo.
“Non lo sappiamo” rispose la Civetta Bianca, a nome di tutto lo stormo. Gufi e Civette stavano mestamente appollaiati su scaffali e mobili tutt’intorno, lasciando parlare la Decana.

“Ha detto che doveva aiutare un amico”
“Aiutare un amico?” ripetè il Corvo, con un tono leggermente incredulo.
La Civetta sospirò, stringendosi impercettibilmente nelle ali. “S’è svegliata una notte, all’improvviso, agitata. S’è vestita in fretta e furia, e buttandosi il mantello sulle spalle, ha detto che un amico aveva bisogno d’aiuto, che doveva andare. Ha detto che prima del ricordo dei Perduti era tenuta al sostegno dei viventi, e che doveva andare. Ed è andata. Non sappiamo dove.” Guardò gli altri Gufi, che scuotevano il capo sconsolati “Abbiamo volato, ma non l’abbiamo vista…”

 Il Corvo si guardò attorno “Il rumore delle Voci riempie tutto il Regno dei Sogni. Persino Oneiros, nel suo Palazzo, ne è disturbato”
La Civetta sospirò di nuovo, mentre i Gufi pigolavano sommessi “Ha detto che aveva bisogno di lei, che doveva andare, che non poteva lasciarlo solo”
“Ma, perché?” domandò il Corvo” Non è questo il suo mondo, ora? “
La Civetta si strinse di nuovo nelle ali “Lei è così. Segue strade che non conosciamo. Fa ciò che fa guidata solo dalla Compassione.”

“Ma, tornerà?“ chiese ancora il Corvo, dopo aver guardato ancora una volta tutt’attorno.
“Certo. Certo che tornerà” affermò sicura la Civetta “Dopo aver fatto ciò che sente di dover fare, quando sarà sicura che chi ama sarà nuovamente sereno e al sicuro, tornerà. Non lascerà nel vuoto i Perduti.
Non abbandonerà il suo Destino. E’ guidata dalla Compassione, e dall’Amore per tutti i cuori raminghi”

Il Corvo allargò le ali, arruffando le penne e spalancando il becco. Saltellò sul davanzale della finestra, si voltò ancora una volta a guardare i Gufi, poi volò fuori, nell’aria tiepida, sui campi di papaveri. Dovunque risuonava il sussurro delle Voci.

Atterrò sulla terrazza dove il Signore dei Sogni se ne stava avvolto nel suo mantello nebbioso, guardando lontano le bianche torri di Amarganta, risplendenti sotto la luna.
Si sistemò col becco le penne scompigliate: “Tornerà”, disse.
“Tornerà” ripetè il Signore dei Sogni, annuendo.
“Allora aspetteremo”.

 

 

Golconda!

Enzo Rizzi: Heavy Bone
Enzo Rizzi: Heavy Bone

 

“Homo lo qual di pietade non abbonda tema l’alopecia et l’ira de Golconda!” (1)
“N-no..no.. i-io.. io…c-cosa… n-non mi interesso molto agli altri, è vero, f-forse sono un po’ chiuso in me stesso…penso solo alla mia musica…ma…ma… l’alopecia?… perché?…” balbettava Jimmy Page fissando con gli occhi sbarrati l’enorme demone abbigliato in perfetto stile hells angels, completo di corna, zanne e catene e Stratocastor incandescente a tracolla, che si era trovato davanti nel cuore della notte entrando nella sua stanza a Headley Grange.

“Homo che amò la mora et la bionda amerà la rossa fiamma de Golconda!” (1)
“N-no..no.. i-io.. io…c-cosa…m-mia moglie, Maureen, ha i capelli scuri… e in America ho Michele, che è bionda, è vero… e, s-sì, mi piace divertirmi con le ragazze…ma…ma… la fiamma?.. p-perché?” balbettava Robert Plant tremante davanti alla diavolessa in completo di pelle sadomaso, con tanto di frusta e acconciatura a coda di cavallo che si contorceva come un fascio di serpenti, che lo aspettava sdraiata sul suo letto.

“Lo sapevo che questa casa era infestata…” mugugnò John Bonham mezzo sbronzo quando un diavolone immenso con zampe di capra e coperto di pelo verde lo trascinò fuori dal letto gridando: “Ovvìa, te ti decidi a venire, ti s’aspetta solo te, di là!”

Nell’atrio della casa Jimmy, catapultatosi terrorizzato dalle scale assieme a Robert, che cercava disperatamente di evitare gli abbracci della procace diavolessa, si trovò in mezzo ad uno spettacolo apocalittico: circondati dalle fiamme che illuminavano la sala, un gruppo di demoni punk tatuati aveva preso possesso degli strumenti della band, mentre una squadra di verdi diavoli pelosi stava cercando di infilare Bonzo dentro la sua grancassa, che aveva preso una forma stranamente simile ad un barile di birra.
“Golgonda, Golconda, l’anima sprofonda! Golgonda, Golconda, la grande baraonda!” (1)
declamavano gli esseri infernali, in un rimbombo insopportabile.
“Eh no!” esplose Jimmy, tanto indignato da dimenticare lo spavento “I nostri strumenti no! Valgono un patrimonio! Con che diritto…”
“Taci tu” gli rispose il demone chitarrista, puntandogli contro un’enorme grinfia “Non sei tu che ti diletti di magia e cerchi il potere in oscure pratiche? Non volete voi conquistare ricchezza e fama attraverso la musica, senza curarvi delle anime innocenti che portate alla rovina per il tramite dei vostri versi satanici, che incidete al contrario nelle vostre canzoni? Voi ci avete evocato, voi avete risvegliato Golconda, con la vostra arte perversa!”
“Sì, e avete anche inventato un genere nuovo” incalzò beffarda la diavolessa, tirando fuori un metro e mezzo di lingua da serpe ed infilandolo nell’orecchio del cantante “la canzone d’amore applicato!” ed iniziò a slacciarsi i pantaloni di pelle coperti da borchie, svelando un’anatomia per niente femminile e di dimensioni inqualificabili.
A Robert il sangue defluì al cuore, diventò bianco come il gesso e cercò disperatamente di fondersi nel muro alle sue spalle, abbarbicandosi agli arazzi che lo ricoprivano come una cozza allo scoglio.
“E non sei tu che ti sei messo a suonare la batteria sottoterra, perché restituisse un riverbero degno degli inferi?” aggiunse uno dei diavoli verdi, percuotendo la grancassa in cui aveva infilato la testa del batterista con il suo randello.

“Ma insomma! Sono le tre di notte! Si può sapere che diavolo succede!? Mi piacerebbe riuscire a dormire!” urlò un’infuriato John Paul Jones mandando la porta a sbattere contro il muro.
“Jonsey! Scappa!…L’inferno!…La casa è davvero infestata!… Siamo assediati dai demoni!… Scappa! Va via!…Salvati! L’inferno è venuto a prenderci!…” gridarono tutti insieme i suoi compagni, cercando di correre verso la voce familiare.
“Ma che cacchio dite ?!?” sbuffò il bassista accendendo la luce.
Ed ecco, la stanza intorno a loro era perfettamente normale, tranquilla e ordinata come l’avevano lasciata per andare a dormire, gli strumenti al loro posto, senza traccia di danni.
“Ma come?” si guardarono intorno i tre musicisti, mortificati “ …eppure… i diavoli… le fiamme… la grancassa…Non abbiamo sognato, Jonsey, erano qui davvero…”
“Siete degli idioti!” ringhiò il bassista “ Ve l’ho detto mille volte! Vi fate di tutte le porcherie di questo mondo, che non sapete neanche più cosa siete, e poi passate il tempo a leggere questa robaccia!” e diede un calcio ad una pila di Dylan Dog ammucchiata vicino al caminetto “per forza che poi vedete il diavolo! Andate a dormire, va, branco di rimbecilliti!”

Richard Cole, arrivato all’ora di pranzo, trovò i quattro musicisti silenziosi ed immusoniti, seduti a rimuginare ognuno per conto suo.
“Allegri ragazzi!” esclamò “Cosa sono questi musi lunghi? Guardate, ho portato le provviste: Bonzo, qui c’è una cassa della tua birra preferita… E qui, ragazzi, la più buona erba di tutta la Giamaica, e ce n’è un sacco!…Ed è tutta per voi!”
Siccome ad Headley Grange non c’era ancora la piscina, i ragazzi lo gettarono nello stagno delle papere.

(1) Sclavi ,Piccatto ,Villa , Ravaioli : “Albo Dylan Dog n° 41: Golconda!”; Febbraio 1990; Bonelli Editore

 

Custard Pie

 

Robert Plant con i suoi genitori
Robert Plant con i suoi genitori

Robert bussò allegramente alla porta del retro, ed entrò senza aspettare risposta. Aveva parcheggiato la sua nuova Jaguar davanti al vialetto d’ingresso, ma poi era passato da dietro la casa, perché sapeva che l’avrebbe trovata lì, in cucina.
“Mamma!” “Rob! Finalmente! Come stai, caro?” La signora Plant abbracciò felice il suo bel figliolo, che quasi la alzò da terra. “Siediti, preparo il the.”
Robert spostò una sedia dal tavolo e si sedette sospirando, mentre la madre se lo covava con gli occhi. “Sono stanco, mamma” disse passandosi le mani tra i capelli “Stanco e un po’ deluso, se devo essere sincero…”
Un’ondata d’ansia assalì subito la madre: cosa c’era che non andava? “Maureen?.. I bambini?..” chiese, temendo già qualcosa di grave.
I pettegolezzi dei giornali arrivavano anche a lei: hotel devastati, ragazze maltrattate, droga… “Cosa c’è di vero? Cosa combini, figlio mio, in giro per il mondo?E tua moglie, sempre sola a casa mentre tu ti diverti, fino a quando sopporterà? E tu, stai bene, sei felice? E’ davvero questa la vita che volevi?” Tutte le domande che la tormentavano quando era sola, non avrebbe mai osato farle al figlio. Si accontentava di covarselo con lo sguardo, e si rasserenava vedendoselo lì, sano, forte, e bello, bello che tutto il mondo lo adorava, il suo bambino.
“No, per fortuna niente problemi in casa “ rispose Robert accendendosi una sigaretta “E’ per l’album… è appena uscito, lo sai, no? E già ha venduto un sacco… E’ un successo…Ci è venuto proprio bene, ci abbiamo lavorato tanto..Perché noi ci lavoriamo, vedi, lavoriamo davvero!” sottolineò con passione ”Stiamo svegli la notte, studiamo gli arrangiamenti, ci mettiamo un sacco di impegno…Eppure i critici ci sono tutti contro. Dicono che siamo una montatura, che la nostra musica piace solo a ragazzini strafatti… grazie…” prese la tazza di the dalle mani della madre e continuò “ che rubiamo i vecchi blues.. e che i nostri testi sono solo un cumulo di oscenità…i miei testi… se sapessero quanto li curo, quanto studio c’è dietro…le ricerche sulle vecchie canzoni, i libri che leggo, i viaggi, la mia vita…e per loro sono solo una specie di… di.. maniaco sessuale ossessionato! Ma del resto…” sospirò “ cosa posso pretendere, quando anche mio padre la pensa così?…”
“Ma no, caro, perché dici questo?” “E’ così, mamma, lo so… non ha mai approvato le mie scelte… anche adesso che vede che avevo ragione… mi ha sempre considerato un fallito…” Robert era proprio amareggiato.
“No Robbie, questo non è vero!” replicò la madre con decisione “Non essere ingiusto, adesso! Tuo padre ti vuole molto bene ed è fiero di te! Solo, non lo vuole far vedere… sai com’è fatto… Vecchia educazione inglese: i sentimenti non si mettono in mostra, meno che mai coi figli. Ma è felice del tuo successo, credimi! Pensa che ritaglia ogni articolo, ogni trafiletto che trova su di voi e lo conserva dentro una cartella, e guai a chi la tocca!”
“Davvero?” disse Robert, rasserenandosi: la stima di suo padre contava davvero tanto per lui, e sapere che lo seguiva, anche se a modo suo, anche se a distanza, gli riscaldava il cuore.
“Su, dai,” continuò la madre “Basta con questi discorsi deprimenti! Guarda cosa ti ho preparato… “Aprì il frigorifero e tirò fuori un piatto, mettendolo poi sul tavolo, sotto il naso del figlio, con un sorriso orgoglioso.
“Oh mamma!” Robert saltò in piedi dalla contentezza “Per me?! Grazie, mamma!” Abbracciò la donna, tutta felice di aver fatto felice il figlio “Il mio dolce preferito!” Afferrò un cucchiaio e, con il piatto in una mano, iniziò a mangiare girellando per la cucina per l’entusiasmo “E’ buonissima! Solo tu la fai così buona! Mmmmhhh…la cosa più buona del mondo! E’inutile: per quanti posti possa vedere, per quante group…ehm, persone possa conoscere, non troverò mai niente, in nessuna parte del mondo, che possa uguagliare la tua.. torta di crema!”

 

In fuga

luna

La stanza è buia, ma fuori c’è un bel chiaro di luna. Il padroncino dorme, sento il suo respiro lieve, ritmico, un leggero sibilo che rompe appena il silenzio. La finestra è aperta: una lieve brezza fa gonfiare la tenda.
Forse… se riesco a muovermi senza rumore… questa può essere la mia occasione.
Di solito chiudono tutto con attenzione maniacale (hanno paura di tutto), ma stasera qualche dio benevolo li ha distratti…
Piano piano scivolo dal posto che mi hanno assegnato; la padrona non sopporta di trovarmi in giro per la casa, a meno che non stia seguendo il padroncino, ed a volte mi tocca passare intere giornate seduto immobile, senza parlare, a morire di noia, e non posso neanche sbadigliare!
Ma adesso non c’è nessuno a vedermi, la casa è immersa nel silenzio, i padroni grandi dormono dall’altra parte del corridoio, non è probabile che mi sentano. Anche quel cane odioso, che cerca sempre di aggredirmi, è chiuso in garage a dormire… Ora o mai più…
Piano piano attraverso la stanza, sono molto silenzioso: i miei piedi nudi sono morbidi, non provocano nemmeno un fruscio sul parquet.
Il primo ostacolo è arrivare alla finestra. Sono piccolino, non posso saltare sul davanzale come vorrei…
Così mi aggrappo alla tenda, e mi tiro su a forza di braccia: non è facile, non sono abituato, ma l’aria fresca che arriva dalla finestra aperta mi sprona: devo farcela ad ogni costo.
Ecco! Ora sono sul davanzale. Ma com’è alto! Non l’avevo calcolato…
Ed ora? Mamma mia, che faccio? Calma, devo mantenere la calma… Indietro non torno, non posso più vivere così…
Mi guardo intorno; per fortuna la luna illumina tutto, e vedo, di fianco alla finestra, una bellissima pianta rampicante! Ecco la mia salvezza!
Mi avvicino: sono fortunato, non è neanche una pianta spinosa, ha grandi foglie verde scuro, e forti tralci saldamente avvinghiati al muro. Mi ci aggrappo, con cautela sposto i piedi dal davanzale, cercando un appoggio tra le fronde. Per fortuna sono piccolo e leggero, il padrone grande sicuramente non potrebbe farsi reggere da una pianta così…
Scendo con attenzione, mi sembra di metterci un’eternità… Non voglio neanche pensare che qualcuno nella casa possa svegliarsi e accorgersi che non ci sono…
Dopo un’infinità, tocco terra. Mi gira quasi la testa per la concentrazione che ho dovuto mettere nella discesa. Ma non ho il tempo di rendermi conto neanche di dove mi trovo, che una serie di latrati rabbiosi mi gela il sangue nelle vene. Il cane! Il terrore di vedermelo addosso, che tenta di azzannarmi, e nessuno a difendermi, mi fa quasi svenire. Ma il cane non arriva, sento solo il suo abbaiare furioso che mi rintrona le orecchie. Mi guardo intorno perplesso, poi capisco: sono davanti alla porta del garage, il cane è chiuso dentro… probabilmente mi ha fiutato, ma non può uscire. Che sollievo! Che si strozzi con la sua stessa rabbia, il maledetto!
Ma i suoi latrati hanno risvegliato tutti i cani del vicinato, che ora abbaiano tutti assieme: che fracasso! Se svegliassero i padroni! Mi conviene andarmene da sotto la finestra il più presto possibile. Mi getto nell’ombra del muro e mi allontano velocemente.
Ma, dove andare, ora? Studio con attenzione la recinzione che chiude il giardino: le aste decorate sono abbastanza larghe per potermi infilare tra una e l’altra, anche se con un po’ di fatica; ma ho paura che si metta a suonare quella sirena che accendono sempre quando vanno a letto.
Forse è meglio passare dietro la casa: c’è un cancelletto rotto, sempre aperto, che porta ad un pezzo di terra dove loro piantano la verdura che mangiano: da lì c’è solo una rete di fil di ferro, posso arrampicarmi, credo, senza troppi problemi…
Infatti, il mio peso appena flette la rete sottile: ormai ho capito come muovermi, riesco a salire senza difficoltà; in cima, con attenzione, mi giro, e scendo, muovendomi come ho fatto per discendere il rampicante.
Hop! A terra!
Davanti me c’è un piccolo fosso, dall’altra parte, i campi aperti. Forza, ancora un piccolo sforzo! Cerco di saltare il fosso, ma ho calcolato male la spinta, e per poco non ricado indietro, nel rigagnolo d’acqua che scorre lenta.
Ahi, attento! Riesco ad aggrapparmi al sottile tronco di un alberello piantato sul bordo: che fortuna! Il ruscello non è profondo, ma sono così piccolo, che avrei potuto farmi male, picchiando, e poi avrei dovuto arrampicarmi di nuovo fuori.
Adesso posso tirare il fiato: seduto sull’erba fresca, nascosto nell’ombra di un grande cespuglio, guardo la casa che speravo sarebbe stata la mia.
Nel posto da cui sono venuto, ci dicevano di avere fiducia, che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno che ci avrebbe voluto, ed avremmo avuto una mamma, un papà e quasi sicuramente un fratellino o una sorellina con cui giocare. E noi infatti aspettavamo fiduciosi, cercando di essere sempre in ordine, di mostrare quanto siamo docili e gentili, teneri, aspettando di trovare una famiglia…
Pensavo di svenire per l’emozione quando quel giorno, un “grande”, finalmente, puntò gli occhi su di me, mi sorrise, e, prendendomi dolcemente in braccio, disse alla mia responsabile: “Lui! Lui è perfetto!”
Disse che avrei tenuto compagnia a suo figlio, un bimbo di quattro anni, ed io avrei pianto di felicità, se avessi osato: pochi minuti dopo stavo viaggiando adagiato su un comodo sedile pulito, verso la “mia” casa, verso il “mio” fratellino, verso la “mia” famiglia!
Ed infatti all’inizio andò così: la mamma mi prese in braccio ridendo, e mi accarezzò la testa, mentre il papà ci guardava orgoglioso; il bimbo mi abbracciò felice, mi volle vicino a sé a tavola, e volle anche che dormissi con lui, nel suo lettino. Ci stavamo perfettamente, in due, tutti e due così piccoli!
Ma la felicità durò poco: scoprii quasi subito con dolore che il bimbo che consideravo mio fratello era capriccioso, egoista e cattivo; sì, proprio cattivo! Urlava come un matto se non veniva accontentato, e in poco tempo si stancò di giocare con me, e cominciò a trattarmi malissimo: mi strattonava, mi tirava le orecchie, mi buttava in terra. Mi prendeva per le braccia e mi faceva girare, come fosse un girotondo, ma alla fine mi lasciava all’improvviso, lanciandomi contro i muri o sul pavimento. A volte addirittura mi prendeva per i piedi, trascinandomi sul pavimento. Una volta mi calpestò, anche!
E quelli che speravo fossero per me un papà ed una mamma, forse esasperati dai suoi capricci, o arrabbiati perchè non riuscivo a calmarlo, non solo non mi difendevano, ma se la prendevano con me. Mi alzavano da terra con uno scapaccione sulla testa, mi prendevano malamente per la braccia e mi sbattevano con rabbia su una sedia, o sul letto. Nessuno mi accarezzava più, nessuno mi diceva cose carine, o mi prendeva in braccio per coccolarmi.
Capii che nessuno mi aveva mai voluto dare una famiglia, ma che ero solo uno schiavo destinato a far star buono quel loro piccolo despota. Così, nel mio cuore, cancellai i dolci nomi di mamma, papà, fratello, e cominciai a chiamarli come veramente erano: padroni.
Ricordare quella tremenda delusione mi riempie ancora di un’amarezza bruciante.
Vorrei piangere, ma non mi posso fermare a compassionarmi: i cani attorno continuano a latrare, se qualcuno si svegliasse e accendesse la luce sul balcone, potrebbe ancora vedermi.
Mi rialzo, a fatica: tutto quell’arrampicarmi e ridiscendere mi ha spezzato le gambe; ma devo raccogliere tutte le mie forze, ed andare.
Almeno ho davanti solo campi aperti, ed è tutto in piano. Su, allora: un passo dopo l’altro, più velocemente possibile, però…
Non è così facile come credevo, però: l’erba è alta, e mi impaccia i passi, la luna crea chiaroscuri, e spesso devo fermarmi a considerare se ci sia solo un’ombra davanti a me, o un buco in cui potrei inciampare, e ogni tanto un fruscio tra le siepi mi immobilizza, col fiato sospeso.
Che fatica! Ma finalmente la terra irregolare finisce… ed ecco la strada! Dovrò seguirla, verso dove non so ancora… Mentre, ormai sfinito, cerco di arrampicarmi sul ciglio, una, due macchine mi sfrecciano a pochi centimetri dal naso, abbagliandomi coi fari, e terrorizzandomi.
Ricado all’indietro, in mezzo all’erba alta, e improvvisamente tutto è buio…

Quando riapro gli occhi, il sole è alto, e la prima cosa che metto a fuoco è che una macchina si sta fermando davanti a me.
Oddio, no! Mi hanno ritrovato! Ma forse posso nascondermi ancora…
Cerco di appiattirmi a terra il più possibile, cercando di nascondermi tra le erbacce…
Ma è inutile: sento la porta dell’automobile che sbatte, passi pesanti avvicinarsi, ed ecco: un “grande” si china su di me. E’ finita: ora mi riporterà da “loro”.

Mi sorride, e mi dice con voce gentile “Ehi, piccolo, che fai qui? Sei solo? Ti sei perso?” Con delicatezza mi solleva da terra, mi pulisce la testa dalla terra e dall’erba secca con una carezza.
Mi porta verso la macchina, apre la portiera posteriore e mi fa entrare.
E… che sorpresa! Sul sedile stanno, puliti ed allegri, altri come me: due orsetti, una giraffina, un piccolo leone e due elefanti. Mi guardano con occhi brillanti, sorridendomi.
Lui mi fa spazio, mi fa sedere con delicatezza e, con un’altra carezza sulla mia testolina confusa, torna al posto di guida.
Guardo i miei nuovi amici, che mi ammiccano incoraggianti e felici, e finalmente mi rilasso, appoggiandomi allo schienale morbido, mentre in me si fa strada la certezza di aver trovato finalmente un papà

 

La difesa di Lesbia

Lawrence Alma Tadema
Lawrence Alma Tadema

 

Ecco, ci risiamo, è di nuovo colpa mia… Tutti a darmi addosso: “Povero Catullo…. Che str*** quella Lesbia.. Lui l’amava tanto….trattarlo così… proprio senza cuore! Lo ha rovinato, un così grande poeta…”    Ma voi che ne sapete?! Qualcuno si preoccupa di come mi sentivo io? Avete idea di quanto fosse pesante avere il “grande poeta” sempre nei piedi?
Io ero una ragazza moderna, aperta, del tutto libera dai vecchi pregiudizi repubblicani con cui avrebbe voluto soffocarci quel matusa di Catone. La famiglia patriarcale fulcro della res publica, la donna silenziosa e sottomessa a filare la lana e pulire le fave per la parca cena, la fedeltà assoluta ad un marito vecchio e frollo che t’aveva scelto tuo padre per interesse… ma siamo matti?!? Ma vi rendete conto?
Io ero giovane, ricca, bellissima, e per di più colta e raffinata; mi piaceva essere sempre a puntino, ben pettinata, ben vestita, con gioielli intonati alle stoffe sontuose dei miei abiti, che facessero risaltare la mia bellezza, e circondata da gente bella come me, raffinata come me, intelligente, con cui si potesse parlare a mente aperta, e ridere, e divertirsi. Vi pare così sbagliato? Mi piacevano anche i bei ragazzi, sì; avevo 24 anni, è così strano?
E’ ovvio che mi si notasse, d’altronde avevo anche un bel carattere, dolce, solare. Non maltrattavo nessuno,io, non mi piaceva far star male la gente; e poi, per che motivo avrei dovuto umiliare chi mi trattava gentilmente?
Ecco, questa è stata la mia unica colpa. Quell’imbranato di Catullo si è preso una cotta pazzesca per me, e io non ho voluto mandarlo al diavolo subito. Mi sembrava una brutta cosa: che m’aveva fatto, dopotutto? Povero ragazzo, così bruttino, miope, sempre solo con il suo stilo e le “sudate carte”.. Gli piacevo, passerotto, mi corteggiava come poteva, mi diceva cose dolcissime, mi faceva regali che non so neanche se potesse permettersi, fiori, frutta, cibi pregiati, perfino gioiellini.. E poi, le poesie. Quale donna non sarebbe lusingata di essere celebrata in una poesia? E comunque lui a Roma aveva già un certo nome, era apprezzato. Quindi mi ritrovavo musa ispiratrice di un poeta famoso, che celebrava le mie bellezze e la mia intelligenza, c’era forse da sputarci sopra?
Sì, forse sono stata un po’ civetta, ma , rispondetemi con sincerità, chi di voi si sarebbe comportata diversamente, nella mia situazione?
Per me era un gioco innocente.. Del resto, lui sapeva benissimo non solo che ero sposata, (e anche se con il mio vecchio marito non avevo praticamente niente da spartire, lui era comunque un uomo importante in città, uno che non si liquida per una cottarella) ma anche che avevo già un …come dire… legame affettuoso con uno dei più belli e valorosi giovani dell’aristocrazia curiale. Ci si scherzava anche, nella compagnia, con il mio amico, anche con lui; e lui rideva con tutti noi. Era un gioco di società, nulla di più, e questo era scontato per tutti, lui compreso; e nessuno aveva il minimo dubbio in proposito.
Ma anche ai nostri tempi un bel gioco è quello che dura poco. Dopo un’estate, cominciavo ad averne abbastanza del poeta sempre appiccicato all’orlo delle mie tuniche ricamate. Siamo sinceri: nella mia elegante compagnia non faceva certo una gran figura. Piccolo, stortignaccolo, mal vestito, a parte il prestigio culturale, non portava certo molto lustro. E poi, appiccicoso! Da non respirare! Ce l’avevo sempre attaccato addosso, coi capelli unti, le mani sudaticcie sempre macchiate d’inchiostro, il fiato pesante; e quegli occhietti strizzati che staccava dalla mia scollatura solo per guardarmi il culo! Non mi mollava mai, neanche quando andavo alle terme con le mie amiche, le migliori matrone della città, o al circo con i miei ricchi ammiratori; non si vergognava di tampinarmi neanche quando uscivo con mio marito per le cerimonie ufficiali. Vi sembra possibile?
Cosa avreste fatto voi? Ho cercato di fargli capire con delicatezza che stava esagerando, che c’era un limite al corteggiamento galante, che il suo comportamento stava rovinando la reputazione mia e dell’importante famiglia di cui facevo parte, che mio marito non poteva tollerare una simile situazione.
Macchè! Continuava a ripetere che il nostro amore era immortale, consacrato dalle Muse e dalle stesse Dee Minerva e Venere, che saremmo stati per sempre il modello degli amanti perfetti, celebrati per tutti i secoli dei secoli.
Ma quell’amore mitico se l’era inventato lui! Io, vi giuro, non l’ho mai incoraggiato, non gli ho mai dato neanche uno di quei baci roventi di cui scriveva!
Mi sono limitata a sopportare, veramente, con tutta la cortesia possibile, il suo goffo corteggiamento, fin quando non è diventato insostenibile.
Mio marito non tollerava più che il nome di sua moglie fosse sulla bocca di tutti i liberti e i clienti della città, e che le donnette alle fontane si sentissero in diritto di criticare la nostra gens. Ha cominciato ad impedirmi di uscire e di frequentare i miei amici di tutta una vita, non dava più cene e feste perché non vedessi nessuno, mi segregava nelle mie stanze, ordinando al portinaio di dire alle mie amiche che ero indisposta; è arrivato a minacciarmi di ripudiarmi come adultera! Non ho neanche più potuto vedere il mio vero amante…
Per colpa sua, di quel cane di nome e di fatto! Quel pazzoide, per la sua gloria letteraria, mi stava distruggendo la vita!
E adesso sarei io la cattiva!?
Lui il povero cuore spezzato, e io la crudele maliarda senza pietà!?
Ma la volete finire tutti, per favore?!
Se non ci fossi stata io, Catullo non avrebbe scritto poesie, e voi non avreste avuto la noia di studiarle? E la mia, di noia, a sopportare le sue filastrocche melense!? E pensare a quanto mi sono costate, poi, e mica le ho chieste io!
Se non ci fosse stato lui, piuttosto, a imbrattare pergamene a mie spese, nessuno avrebbe neanche saputo il mio nome, ed io avrei vissuto tranquilla, col mio vero amore e il mio maritino consenziente.
Come, vi stupite? Guardate che era prassi comune! C’erano trent’anni di differenza tra me e lui, cosa poteva aspettarsi? E poi il mio amante era un giovane molto influente a corte… e lui del resto mi ha sposato per imparentarsi con la mia ricca famiglia, mica per amore… Se quel cretino ossessionato non avesse fatto tutta quella fiera, la mia vita sarebbe stata felice e sicura. Certo che dopo la fama che mi ha gettato addosso, mio marito non poteva più fare l’indifferente!
Così il suo presunto amore immortale mi ha reso solo la fama imperitura di donnaccia senza coscienza. Che bel regalo, eh!?
Sapete che vi dico? Lasciate perdere le poesie che parlano di baci, imparate a darne, piuttosto, vedrete che ne ricaverete molto di più!

 

Continuando il discorso sulle song fiction: The Lemon song

Ecco un esempio di music fan fiction, anche se un po’ anomalo, in quanto generalmente, nella music ff, la voce narrante è anche protagonista del racconto. In questo caso, il testo della canzone non compare se non in minima parte, perchè l’attenzione è spostata sullo stato d’animo dei partecipanti all’azione

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The Lemon song ( dall’album “Led Zeppelin II” – Led Zeppelin – 1969 – Atlantic Records)

Robert non riusciva a staccare gli occhi dalla ragazza sotto il palco.
Non era la classica bionda californiana, ma piuttosto una monella irlandese, coi capelli color rame, le lentiggini e grandi occhi maliziosi grigio-verdi: non tanto un tipo da sesso selvaggio, ma una con cui spaccarsi dalle risate e correre in giro a combinar marachelle.
In ogni modo, sprizzava così tanta allegria e vitalità da renderlo euforico. Così, le puntò addosso il suo miglior sguardo ”baby-stasera-ho-scelto-te” e modulò “Squeeeeeeeeze my lemon!!!” mettendoci tutta l’intenzione possibile.
Lei scandì qualcosa in risposta; non era certo possibile sentire una sola sillaba in mezzo alla musica ed alle grida, ma gli sembrò di leggerle sulle labbra una frase tipo “…se proprio ci tieni…”
Tirò fuori da chissà dove una borsina di carta colorata, di quelle usate per confezionare regali, e la lanciò con mossa precisa a pochi centimetri dai suoi piedi.
Rivolgendo un sorriso trionfante ai suoi compagni sul palco, Robert si chinò a raccoglierla: magari conteneva qualche indumento intimo sexy….
Vi infilò la mano e incontrò del metallo: probabilmente uno di quei gingilli d’argento che gli piacevano tanto.
Con un gesto teatrale tirò fuori l’oggetto, lasciando cadere la borsa a terra.
Il sorriso trionfante gli morì sul viso; da qualche parte dentro la sua anima sentì distintamente il tonfo del vichingo conquistatore che cadeva da cavallo; e, mentre i suoi compagni dietro di lui e la ragazza davanti a lui si piegavano in quattro dalle risate, rimase in piedi davanti a settantamila persone brandendo un lucente spremiagrumi.

Il giardino della Datura

stramonio-datura-stregheMe ne vado. Finalmente lascio questa casa, che per tutti è bellissima, ma per me è stata solo una prigione senza speranza. Una antica cascina, appollaiata in cima alla collina, con una vista mozzafiato e un grande giardino. Mio padre era orgoglioso, quando i visitatori la lodavano: la casa di famiglia, ereditata da suo padre assieme alla terra, un frutteto. Se ne vantava, di fronte ad amici e parenti, ma non lo sentivo mai bestemmiare così tanto come quando c’era qualche lavoro da fare in campagna.
Il giardino sì, l’ho sempre amato, col grande cedro, che era “mio”, perché mio padre, secondo tradizione, l’aveva piantato alla mia nascita, e le rose antiche centifoglie, la magnolia, le aiuole bordate di violette e garofanini, i cespugli di ortensie, e la datura dai grandi fiori bianchi profumati di farina dolce in fondo alla scala. (…Alcuni la chiamano l’Erba della Saggezza. Altri la Mela Spinosa. Altri ancora la Tromba del Diavolo o la Mela Pazza. Ma in India, in montagna, la chiamano tutti Dathura. La si può raccogliere a lato delle strade)*
Mia madre aveva il pollice verde, che io non ho mai avuto. A me seccano anche le piante finte, lei poteva piantare un bastone secco in terra, che il giorno dopo era fiorito. Tanto quanto detestava occuparsi del frutteto con mio padre, così amava dedicarsi alle piantine innocenti del giardino e dei vasi: passava tutta la mattinata a togliere erbacce, dividere ceppi di piante, potare cespugli.
Quando stava bene. Il che succedeva raramente.
Perché mia madre stava sempre male; ed io, bambina, vivevo nel terrore: la mia mamma era malata, chissà cosa aveva, sarebbe morta, forse? Tornavo a casa da scuola e trovavo il cancello chiuso, andavo a prendere la chiave dal vicino, riaccendevo il fuoco nella stufa a legna che riscaldava tutta la casa, ed aspettavo. Prima o poi sarebbe suonato il telefono, e mio padre, con voce rassegnata, mi avrebbe detto in quale ospedale avevano ricoverato mia madre. E allora, la casa era tutta sulle mie spalle:bisognava badare a mio padre, che andava e veniva tra il lavoro e l’ospedale,cucinare , tenere tutto pulito, lavare e stirare la biancheria di mia madre, che doveva pur cambiarsi, e, durante la stagione, dare anche una mano nell’orto e nel frutteto. E quando tornava a casa era ancora peggio. La convalescenza non finiva mai, restava a letto per settimane; io dovevo continuare ad occuparmi di tutto, e in più badare a lei, che voleva sempre qualcuno accanto e si lamentava in continuazione di non essere “accudita” abbastanza. Ragazzina di otto, dieci anni, correvo tutto il giorno, cucinando, lavando pavimenti, mobili, bagni, rassettando le stanze, facendo il bucato; e per tutto incoraggiamento lei strillava tutto il giorno “Se fosse solo per te, morirei di fame! Non mi dai neanche un bicchiere d’acqua, imbranata! Le altre sì, che sono in gamba… Tu….” Il bicchiere d’acqua era sempre pieno, fresco, sul comodino…
La mattina, la scuola era un sollievo, e poi toccava studiare di notte. Ma non importava, a me piaceva studiare. Sola, senza coetanei, in quel posto isolato dal mondo dove ci aveva portati mio padre, e dove d’inverno non si sentiva una sola voce per giorni, i libri erano i miei unici amici.
Nella bella stagione, mi sedevo in fondo alla scala a leggere, le gambe al sole e la testa all’ombra, sotto il cespuglio di datura che mi sovrastava, aspirando a pieni polmoni quel suo profumo particolare. Adoro quel profumo e i grandi fiori a campana, fragili e delicati, bianchi, con il cuore violetto. Non ne ho mai visto di uguali da nessuna parte. Non so come l’avesse avuta mia madre. (…I suoi fiori hanno la forma di una campana, una bella campana viola o bianca, e come tutte le grandi piante è simile all’uomo: volubile e capace in egual misura di fare del bene come del male…)*
Dal balcone sopra, mia madre si sporgeva a gridare .”Togliti di lì! Sotto quella pianta! E’ velenosa, lo sai! Vieni su, che ho bisogno!” (…Come la belladonna, è della famiglia delle Solanacee. Il suo principio attivo è la scopolamina…)*
Sbuffava, mia madre; non sopportava che io passassi tempo sui libri. Dovevo cucire e fare la calzetta, i libri non servivano a niente.. Ma mio padre si era impuntato: dovevo studiare, dovevo laurearmi; e lei non osava opporglisi; ma avrebbe voluto che me ne stessi giorno e notte sotto le sue gonnelle, pronta a scattare ad ogni suo desiderio.
Il suo sogno era di vivere da signora, senza dover pensare a nulla, servita e riverita, occupandosi solo di cosa le piaceva. E siccome non era abbastanza ricca per avere dei servitori, toccava a noi, a mio padre che se l’era sposata, a me che ero “sua”, esaudire la sua ambizione. La malattia era diventata un mezzo per poter vivere a modo suo.
Me ne ero resa conto solo da adulta, vivendo fuori casa per frequentare l’università: i suoi veri problemi di salute non erano poi così gravi; il resto era ipocondria, recitazione, ricatto.
Questa consapevolezza, però, non servì a rendermi più libera: non so come, ma lei aveva affinato la capacità di ammalarsi a comando. Ogni volta che organizzavo qualcosa con gli amici, un’uscita serale, una domenica al mare, potevo star sicura che lei si sarebbe sentita male, in modo da impedirmi di andare. A volte si faceva salire persino la febbre, non so per quale meccanismo inconscio.
Così, quasi tutte le mie domeniche passavano in quella casa, con la sola compagnia dei miei libri. Ogni tanto scendevo a passeggiare in giardino, consolandomi con la bellezza dei fiori, e finivo sempre a contemplare la pianta di datura, che mi attraeva inspiegabilmente. (….Quando è benevola, cura le ulcere della pelle, le emorroidi, i reumatismi, gli attacchi d’asma, le abrasioni e le ferite, e anestetizza la riduzione di una frattura… )*

Mia madre non mi amava.
Non mi ha mai amato, ed io per tutta la vita ho cercato di ottenere il suo amore, facendo ogni cosa che voleva, anticipando ogni suo capriccio, rinunciando a tutto, annullandomi completamente.
Non mi ha mai amato, ma aveva bisogno di me. Ero la sua cameriera, la sua infermiera, la sua dama di compagnia. Non sua figlia.
Me lo disse chiaro il giorno in cui le annunciai che mi sposavo: “Io ti avevo messo al mondo perché ti occupassi di me!” Recriminazioni, accuse, sensi di colpa. Ma finalmente ne sarei uscita.
Il mio ragazzo era cresciuto anche lui in una famiglia fredda ed egoista, ci capivamo e ci consolavamo; per questo avevamo deciso di sposarci. Ci saremmo salvati a vicenda.
La sera del mio matrimonio, scappai da quella casa con sollievo; il mio unico, lieve, rammarico fu non per mio padre, che restava da solo con quella donna egoista, ma per il “mio” cedro e la “mia” datura.
(… quando è in vena di scherzi, causa allucinazioni e amnesie, ti fa vacillare e sorridere, trascendere e divinare, ingozzare e fornicare…)*

Fu un’illusione. Mia madre continuò col suo gioco: stava sempre male, aveva sempre bisogno di me, faceva di tutto per tenermi lontana da mio marito. Se la assecondavo, potevo sperare di avere qualche giorno di tregua, di poter almeno essere lasciata in pace al lavoro; se, ogni tanto, quando mi chiamava per qualche capriccio, mi rifiutavo di andare, il giorno dopo dovevo correre in ospedale.
Non mi lasciò in pace neanche quando nacquero i miei figli: dovevo lasciarli a mia cognata per andare a servire lei.
Ero piena di rabbia e risentimento, ma  mi avevano cresciuta facendomi sentire sempre in colpa e in difetto nei suoi confronti, e non riuscivo a liberami da questi sentimenti. Inoltre la legge mi obbligava a prendermi cura dei miei genitori in caso di bisogno, così continuavo ad assecondarla, e trascinavo anche la mia famiglia nel suo gioco perverso.
Così passarono gli anni, i miei genitori invecchiavano, e la situazione si aggravava di giorno in giorno. Alle malattie di comodo iniziarono ad aggiungersi quelle vere. Mia madre ebbe un primo ictus, camminava a fatica; mio padre smise di occuparsi del frutteto: la sua schiena non reggeva più. Ma volevano fare a modo loro, e cadevano in terra ad ogni momento. Rifiutavano ogni soluzione: la casa di riposo era per i morti di fame; e perché prendere qualcuno ad aiutarli in casa, quando c’ero io? C’era già una serva gratis, perché pagarne un’altra?
Mio marito, che pure era stato disponibile e premuroso, non ne poteva più: ad ogni annuncio di una nuova malattia erano litigi, accuse, minacce. I miei figli odiavano i nonni. Piano piano mi lasciarono sola a vedermela con loro.
Mio padre morì. Non lo piansi molto: mi ero resa conto negli anni che anche lui mi aveva ingannato, scoraggiando ogni mio tentativo d’indipendenza per poter vivere tranquillamente la sua vita, mentre io mi occupavo di mia madre. Se io me ne fossi andata, come sognavo da ragazza, avrebbe dovuto farlo lui.
Lei non si lasciò convincere neanche allora: continuò a vivere in quella catapecchia, costringendomi a fatiche sempre più pesanti, e lamentandosi in continuazione di essere trascurata e abbandonata dalla “famiglia”.
Poi, ebbe un secondo ictus. Questo la paralizzò totalmente, inchiodandola a letto. Rifiutò ancora il ricovero in una struttura specializzata. Per la legge era padrona di sé, quindi nessuno poteva costringerla. Ma i medici furono chiari: doveva avere assistenza continua. La famiglia doveva occuparsene. Come, erano affari miei, era mia madre dopotutto.
Non ebbi altra scelta: tornai a vivere con lei.
Mio marito mi lasciò. I miei figli, ormai adolescenti, non vollero più avere a che fare con me, che avevo preferito una vecchia viziata a loro.
Diventai definitivamente quello che lei aveva deciso quando mi aveva messa al mondo: la sua serva personale.
Ormai ero senza speranza, mi trascinavo per casa, pronta ad ogni suo ordine, sopportando insulti, dispetti, umiliazioni. Nei pochi momenti di tregua, quando lei dormiva ( e dormiva poco, anche di notte) leggevo i vecchi libri di erboristeria di mia nonna, o curavo il giardino. La datura aveva poco a poco invaso tutta l’aiuola che prima divideva con rose e garofanetti. (…Quando è malevola, aumenta il battito cardiaco, secca la gola, dilata le pupille, torce i muscoli, trasforma lo stomaco in acqua e causa depressione e nervosismo…)*
Giorno per giorno peggiorò, diventando sempre più capricciosa e aggressiva, lamentandosi sempre di nuovi dolori e malesseri, mai contenta. Il medico disse che era evidente una demenza senile in rapida progressione. Prescrisse tranquillanti che lei non volle mai prendere.
La situazione precipitò una mattina, quando mi tirò addosso la tazza di pane e latte con cui cercavo di imboccarla, maledicendomi. Mi ruppe un labbro. Scappai via singhiozzando istericamente, e passai la giornata sotto la datura, ignorando le sue urla (…La usano i rapinatori. La usano gli assassini. La usano i medici. La usano le streghe. La usano gli amanti…)*
Aggredì anche il medico, che non tornò più a visitarla, lasciandomi le prescrizioni per i farmaci nella buca delle lettere. Ogni tanto le vicine venivano a confortarmi, ma non entrarono più nella sua stanza.
Due settimane fa, finalmente è morta. Sono andata al funerale elegante, coi tacchi alti, una pettinatura nuova e trucco marcato. Nessuno ha osato criticarmi. Mio marito e i miei figli non c’erano.
Ed ora, finalmente, me ne vado: sono libera, libera per la prima volta in vita mia.
Ho venduto tutto, casa, terra, mobili, suppellettili; ho tenuto per me solo i gioielli che mia nonna mi aveva destinato espressamente, e che lei non aveva mai voluto darmi.
Finalmente viaggerò, come ho sempre sognato. Non ho più motivo per fermarmi in questo posto, non ho più un compagno, né dei figli, né un lavoro, per colpa di quella donna cattiva, che non meritava di essere madre.
Ho chiuso tutto, lascerò le chiavi all’agenzia che ha comprato la casa. Mi fermo solo una volta, ancora una volta, davanti alla pianta di datura, fiorita di bianco e viola, odorosa di farina dolce, la mia sola amica in tutta la mia vita. Accarezzo dolcemente le sue campane delicate prima di andarmene, senza più un solo sguardo dietro di me.
(…Dieci semi ogni giorno, finché non sopraggiunge la pazzia. E poi, un giorno, cento semi…)*

* Tratto dal romanzo “L’alchimia del desidero” di Tarun J. Tejpal, Garzanti, 2008